Maledetti influencer!! Ci rubano il lavoro!1!!1
E uno sguardo al futuro della pizza, che in realtà è già presente
Ciao sono Peppe, e questo 2024 l’ho cominciato di botto con una bella polemica. Io che, non a inizio anno, ma ogni giorno mi faccio il buon proposito di evitare diatribe inutili e cercare di non commentare post che mi scatenano emozioni forti, mi trovo immancabilmente a partecipare al gioco di chi ci vuole tutti a commentare sul suo profilo, per aumentare il numero di reazioni che fa felice l’algoritmo.
A dire la verità, il più delle volte ci riesco a non cadere in tentazione. Ho lavorato e continuo a lavorare molto su me stesso da questo punto di vista, riuscendo spesso ad allontanare i pollici dal tastierino digitale. Altre volte, scrivo solo se quello che ho da dire aggiunge effettivamente qualcosa al discorso. Anche se non è che noi stessi siamo proprio i giudici migliori di questa discriminante, visto che il nostro ego è sempre lì a dirci che stiamo per scrivere la cosa più intelligente e originale di tutti.
Però la mia regola base è: dillo, ma dillo con calma. Ma niente, ci sono alcuni casi in cui non solo mi scelgo delle battaglie che mi stanno a cuore, ma ci entro anche imbracciando un ariete con l’impeto di Leonida che si appresta a banchettare nell’Ade. Non mi fa onore, lo so, ma il vantaggio è che perlomeno ci traggo fuori un discorso da riportare in questa newsletter (se no che starei a raccontarvi a fare qua di queste mie idiosincrasie?).
Succede quindi che un paio di giorni fa veniamo a sapere che la Stampa interrompe la sua quarantennale collaborazione con Edoardo Raspelli, giornalista che ha fatto la storia della critica gastronomica in Italia. La notizia viene accolta con tristezza da numerosi commentatori, soprattutto perché non ci è dato sapere quali sono i motivi di questa interruzione. Ne parla un altro critico gastronomico molto seguito sul suo profilo Facebook, e il suo pensiero finale sulla vicenda è: la qualità del lavoro non conta più nel giornalismo italiano.
Pensiero che mi trova anche d’accordo, ma non dirò il nome del critico, perché è sotto il suo post che si è scatenata la polemica che mi ha visto protagonista, e non mi va di scadere nel gossip. Ma se dovessi dare in pasto a ChatGPT tutti i commenti apparsi sotto questo post, l’algoritmo AI me li riassumerebbe con una semplice frase: “È tutta colpa dei food influencer!!!”.
Nonostante non sappiamo alcunché delle motivazioni di questa rottura, ecco che arriva una banale sintesi a furor di popolo:
La gente non è interessata alla qualità perché ormai siamo invasi dal lavoro dozzinale di influencers e creator incompetenti che riducono la comunicazione food a reel insignificanti come tante scimmie urlatrici, ed è lì che vanno i soldi ora.
Signori, il capro espiatorio è servito.
Sia chiaro, non è che ritengo che questa tesi sia del tutto infondata o non corrispondente alla realtà. Ma non tollero il derubricare tutta la vicenda a un binomio assolutistico che è tipico di un certo conservatorismo elite: quello che vede da un lato la stampa tradizionale, dove tutto è buono, giusto e di qualità; e all’estremo opposto il lavoro dei content creator, che producono solo spazzatura.
(Tra l’altro, il termine content creator l’ho utilizzato principalmente io nella conversazione: la maggior parte dei commentatori ha usato il termine influencer - che di base non vuol dire niente, perché non individua un’unica categoria - e come sempre si carica il peso di tutta una retorica negativa tipica di certi ambienti snob)
Ora, io ho una certa intolleranza verso concetti banali e manicheisti come questo. Soprattutto perché il cardine su cui si regge questa tesi è quello di un sillogismo sbagliato: il giornalista tradizionale è competente, il content creator no. Una visione superficiale e ignorante di chi dimostra davvero di non frequentare le piattafome social, o perlomeno si ferma alla superficie dei contenuti spazzatura - quelli, innegabili - che spesso ci arrivano prima degli altri perché premiati più facilmente dalle persone, e quindi dall’algoritmo.
Ho provato a portare nella conversazione alcuni fatti:
In Italia la creator economy stima un giro d'affari di 1.5 miliardi di euro, con almeno 350mila individui che creano contenuti. Sono davvero tutti delle capre non meritevoli d'ascolto?
Focalizziamoci sul food e partiamo dalla categoria più popolare, quella degli autori di ricette. Ci sono una marea di creator che si impegnano a elaborare piatti solo per far conoscere ingredienti e ricette del proprio territorio, valorizzare la cultura delle zone che abitano e portarla a un pubblico molto più ampio. Laddove queste ricette in tempi passati sarebbero state relegate solo alla conoscenza di pochi viaggiatori.
Passiamo a quella categoria di creator che invece narrano il cibo che mangiano: quanti di questi ci permettono di conoscere piccole realtà gastronomiche che verrebbero totalmente ignorate da guide, classifiche e articoli di giornalisti gastrofighetti? Molti di questi sono in grado con un reel di spostare una quantità di persone tale che una testata giornalistica non sarebbe in grado di fare in un anno di pubblicazioni.
Ci sono poi quelli che intrattengono relazioni di consulenza con aziende di ristorazione permettendo loro di migliorare la comunicazione del proprio prodotto (sui social o altri mezzi di comunicazione) e raggiungere un parco clienti più elevato, aiutandoli così a incrementare il fatturato.
In ultimo aggiungo quella particolare nicchia di divulgatori dell’alimentazione (chimici, nutrizionisti, tecnologi alimentari, ecc.) che non solo creano informazione positiva rendendo accessibile la conoscienza scientifica alla massa, ma pubblicano e vendono copie e copie di libri, tenendo in piedi un settore come quello dell’editoria che al giorno d’oggi si regge principalmente grazie a queste figure.
(ah, per non parlare dell’abbondante quantità di food creator che fanno vendere i loro libri di ricette)
In soldoni, molti content creator fanno informazione di qualità e fanno girare l’economia.
Basterebbero questi pochi punti a far crollare l’intera tesi anti-social dei conservatori del giornalismo tradizionale (e non voglio nemmeno addentrarmi dall’altra parte, perché anche la tesi opposta che vede chiunque scriva sulle testate giornalistiche competente e preparato per definizione è fallace di suo). Peccato che i fatti servano a poco di fronte a un’altra opinione ben consolidata che ci si è costruiti nei confronti di questi figli del demonio: ovvero che sono tutti marchettari al soldo di chi li paga, e che per questo la loro parola valga meno di zero.
Al che faccio notare che pubblicità e informazione possono anche andare di pari passo: basta mettere le opinioni da parte, narrare fatti veri e farlo con la massima trasparenza e tutti i disclaimer del caso. D’altronde, la stessa carta stampata non vive anch’essa di publiredazionali? Ma niente, anche la logica non abbatte il muro della diffidenza: gli influencer sono marci dentro, solo i giornalisti sono i duri e puri, veri salvatori della patria.
Non dico niente di nuovo se faccio notare che quelli che gridano all’untore non fanno altro che palesare quel mostro dagli occhi verdi che li rode da dentro: l’invidia di non essere stati capaci di adeguarsi alle nuove forme di comunicazione, aggiunta probabilmente alla consapevolezza che forse non è che si abbiano queste grandi cose interessanti da dire.
“La qualità non conta più nel giornalismo italiano”, anche questa frase che mi trovava in parte d’accordo mostra molte crepe. Chi definisce cosa è qualità? E quando parliamo di giornalismo italiano, di quale giornalismo parliamo? Nel nostro paese ci sono numerose realtà giornalistiche nate digital che fanno numeri e fatturati interessanti, editori giovani dal taglio moderno che si reggono su un modello di business che riesce a coniugare informazione di qualità, intrattenimento, pubblicità e persino patronaggio.
E allora, è il giornalismo tradizionale a essere in crisi, o i dinosauri che lo abitano?
I PRONOSTICI DEL… NAAAH
Il gioco dei trend del nuovo anno è sicuramente molto divertente, e da un paio di anni mi diverto anche a io farlo per quanto riguarda il settore pizza, potendo orgogliosamente dire di averci azzeccato più volte. Ma è chiaro, nessuno ha la palla di cristallo, si tratta semplicemente di osservare cosa succede attorno e dire “questa cosa prenderà piede”. Ovvio che se parliamo di previsioni, dall’esterno la cosa viene interpretata quasi come una pratica divinatoria. La banale realtà è che tutto quello che diciamo che succederà in realtà sta già succedendo, e noi stiamo solo pronosticando che arriverà al grande pubblico: se tra le tante previsioni fatte ne azzecchiamo una potremmo dire “ecco, io lo avevo detto”, glissando convenientemente su tutte le altre cose su cui non ci abbiamo preso.
Uno dei cavalli sicuri su cui scommettere sempre è l’attenzione alla sostenibilità e al plant-based: è un trend facile da individuare, perché bisogna proprio vivere sotto una pietra per non rendersi conto che l’offerta di ingredienti alternativi aumenta sempre di più. Tra i vari eventi di pizza che ho frequentato l’anno scorso ho trovato sicuramente interessante il Parizza di Parigi dal punto di vista dell’offerta commerciale: numerosi erano gli stand di brand di prodotti a base totalmente vegetale.
Più difficile è invece entrare nel dettaglio pronosticando la popolarità di un particolare alimento o ingrediente. Alle volte la realtà ci prende in contropiede: chi avrebbe mai pensato che l’invasione del granchio blu lo avrebbe reso per un certo periodo un topping così popolare sulla pizza? Altre volte, invece, canniamo di brutto: l’autorizzazione europea all’uso della farina di grillo sembrava che avrebbe aperto nuove frontiere nella panificazione; ma dopo l’entusiasmo iniziale e i titoli di giornale conquistati dai primi sperimentatori - e i loro detrattori - non se n’è saputo più niente.
Ci sono poi tendenze che viaggiano su binari paralleli: se gli ultimi anni hanno visto affermarsi sempre di più l’abbinamento pizza e cocktail (un trend già consolidato da tempo fuori dall’Italia), nel frattempo il numero dei consumatori di alcol è calato notevolmente.
A questo punto io azzardo il mio pronostico: messi da parte birre, bollicine e superalcolici, ora punteremo all’abbinamento pizza e caffè. Oh, chiaramente non me ne sto prendendo il merito, ma attingo alle parole dei promotori di questo pairing.
(Uno tra questi è Federico Coffeeandlucas, appassionato di caffè che segue anche la comunicazione di vari chef e pizzaioli: è stato protagonista di una puntata di Che Pizza - Il Podcast)
Un altro tema interessante è quello delle pizzerie intese non più come luogo in cui si mangia solo la pizza, ma come parchi divertimenti veri e propri. L’ultimo paio di anni ha per esempio visto, soprattutto nel napoletano, l’apertura di numerosi locali che presentano un’offerta di pizza molto variegata: dalla napoletana classica, alla pizza alla pala, a pizze al taglio e focacce. Alcuni di questi vengono affiancati anche delle bakery (un esempio dei più popolari è Foorn a Mariglianella). Ma ora la pizza sembra stia pian piano diventando quasi un piatto che faccia da contorno a un luogo che vuole offrirti dell’altro: dai cocktail bar, ai locali a tema, il pretesto è farti accomodare per una Margherita, ma i tuoi soldi li spenderai principalmente in altro.
Parliamo di mercati emergenti: in un’epoca in cui la pizza napoletana ha conquistato una popolarità globale e riusciamo a esportarla un po’ dappertutto, quali sono i paesi che stanno mostrando l’interesse maggiore? Gli ultimi anni hanno sicuramente visto grosso fermento nell’area mediorientale, con gli Emirati Arabi a farla da capofila. Per il futuro io punto sull’India, paese dove da tempo tengo d’occhio piccole realtà interessanti e già sono stati ospitati eventi gastronomici di una certa rilevanza. Ahimè, non credo sarà un futuro immediato, dati i grossi problemi di importazione della materia prima a causa dei pesanti dazi doganali. E in un paese dove catene come Domino’s proliferano perché vendono la pizza a poche rupie, ovvero pizza per il popolo, così come dovrebbe essere, la pizza napoletana di qualità farà molta fatica a emergere.
Stili di pizza? È indubbio che questo sia il periodo della pizza romana tonda, che da pochi anni ha cominciato a vivere il suo rinascimento contemporaneo come fu per la napoletana dieci anni fa. È certamente ancora limitata nell’espansione territoriale, ma forse il 2024 la vedrà sempre più protagonista fuori dalle mura, magari anche all’estero. Nel frattempo da un paio d’anni assistiamo alla lenta e silenziosa scalata del padellino, vuoi che sia quello campano da ruoto, o quello torinese da tegamino. Ancora un po’ presto, a mio parere, auspicare la popolarità della pizza al trancio milanese: forse nel 2025?
Intanto su Instagram abbiamo assistito a un fenomeno strano: negli ultimi mesi dell’anno appena passato era tutto un proliferare di reel sulla pizza bacio/ventaglio/sorriso o come vogliamo chiamarla (se ha davvero un nome). Ovvero, quella base di pizza napoletana sotto i 30 cm cotta ripiegata su se stessa, e poi farcita come un sandwich con carne, verdure, e qualsiasi cosa suggerisca la fantasia. Soprattutto tra i creator stranieri, questo stile ha spopolato (ovviamente ispirati da quelli italiani, qui le tendenze le facciamo noi).
La mia ultima previsione riguarda il nostro paese in toto. Qui me la gioco così: ritengo che il futuro della pizza in Italia sia a domicilio. Cosa intendo dire? Di questo, magari, te ne parlo nella prossima newsletter…
E QUAL È INVECE IL FUTURO DI QUESTA NEWSLETTER NEL 2024?
Me lo sto chiedendo anche io da un po’. Dopo la sezione pronostici, questa sarebbe la sezione propositi per l’anno nuovo. In realtà è da settembre che mi domando dove voglio andare, cosa voglio comunicare, come voglio farlo e perché. Domande che ancora non hanno una risposta, forse perché preferisco non mettere mai un punto fermo, e mi piace sperimentare costantemente: d’altronde C’è Pizza è nata proprio a inizio dell’anno scorso come ulteriore canale di sfogo per comunicare la mia passione. Ed è stato un anno decisamente interessante, dove ho già compreso alcune cose che mi torneranno utili.
In primis: vale qui su Substack quello che vale per tutte le altre piattaforme. Se vuoi crescere, devi prenderti la briga di esserci costantemente, pubblicare con frequenza e regolarità, altrimenti la gente si scorda di te. La speranza di trovare qua un rifugio dai capricci degli algoritmi social è pia illusione, perché vigono le stesse regole di comunicazione. Così come vale il concetto che per crescere non puoi limitarti a pubblicare e sperare che le tue parole arrivino a qualcuno: ma devi interagire con gli altri avventori di questa piattaforma, fare rete, generare community, insomma investire grossa parte del tuo tempo per essere presente. Da questo punto di vista non è molto differente da YouTube o Instagram.
Soprattutto ora che Substack sta cercando di assomigliare sempre di più a un social network, con l’introduzione di note e video: non mi stupirei se a breve arrivassero anche le storie. Anche qui si fa fatica a farsi notare, e la conclusione a cui sono arrivato è che non ci voglio dedicare più tempo del necessario, se non quello che mi fa effettivamente piacere passare su questa piattaforma. Non ho avuto la possibilità di essere un early adopter, ma un anno qui dentro mi è bastato per farmi calare l’entusiasmo iniziale dovuto ai costanti cambiamenti di visione dei suoi fondatori. Ah, e vogliamo parlare delle recenti polemiche sulla monetizzazione di contenuti di estrema destra? Non sarei sorpreso se quest’anno la situazione degenerasse così tanto da portare a un esodo di massa degli utenti. Meglio allora non investirci troppo tempo, qui il castello di carte potrebbe crollare presto.
Ho inoltre già parlato del mio problema con l’affaticamento da link. La rubrica delle letture consigliate, tipica di molte newsletter italiane, era divertente, perché permetteva a me in primis di ampliare i miei orizzonti. Ma quando mi sono reso conto che scavare alla ricerca di notizie e articoli stava diventando più un lavoro che altro, ho capito che non era il caso proseguire su quella strada. Meglio concentrarsi sul mio contenuto.
Per cui, anche se non ho pianificato ancora il futuro di questa newsletter, una certa chiarezza di idee me la sto facendo, e si riassume in un unico obiettivo: continuare a scrivere di quello che so. Ovvero, scrivere di quello che sperimento in prima persona, vuoi perché lo vivo, vuoi perché lo leggo, vuoi perché interagisco con altri esperti o appassionati. E, soprattutto, scrivere quando ho qualcosa da dire: il che dovrebbe prescindere anche da una cadenza regolare di uscita, sia che parliamo di frequenza, che di regolarità di giorno o ora della settimana. Insomma, trattare questa newsletter non come fosse un magazine, ma come fosse un blog: dopotutto, è come blogger che nasco, e quell’anima me la porto sempre dietro.
Buon 2024.
Grazie di avermi letto.
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Mi chiamo Giuseppe A. D’Angelo, ma puoi chiamarmi Peppe: scrivo di pizza dal 2015 sul mio blog Pizza DIXIT e anche altrove. Dal 2021 conduco un podcast chiamato Che Pizza. Non faccio talk, non pubblico libri, non offro consulenze: insomma, LinkedIn mi odierebbe.
Il giornalismo italiano è diventato pigro, un po' per i soldi che mancano e un po' perché dopo 20 anni seduto alla stessa poltrona ti annoi, a meno che tu non sia davvero un fuoriclasse. Vale anche per il giornalismo gastronomico. Che influencer/creators abbiano riempito un vuoto lasciato dal giornalismo e/o creato dai social è dunque normale e, se posso dire la mia, è anche un dibattito un po' vecchio.
Quando sono arrivato a Torino sono rimasto spiazzato alla domanda "Tegamino o mattone?". Mi chiedevo dove fossi finito. Poi ho scoperto pro e contro di tutte e due.
Sulle pizze plant based farei l'assaggiatore incallito!
A proposito di influencer: è il termine stesso che si porta dietro una sfumatura negativa. E peccato pure siano prevalenti i termini inglesi che sembrano sempre un po' snob, compreso content creator. Però creatore di contenuti non suona benissimo in italiano, perciò siamo punto e a capo.