Ciao, sono Peppe, e ti dò un caloroso benvenuto. 450°, per la precisione, la temperatura media per la cottura di una buona pizza napoletana. Se dopo sta battutaccia non hai ancora cancellato l’iscrizione ti ringrazio due volte. Forse fai parte di tutte quelle persone che si sono iscritte nell’ultima settimana grazie alla newsletter di domenica scorsa (grazie ancora a chi l’ha condivisa, è stata un successone). Se è così, fatti sentire in un commento di questa newsletter e dimmi chi sei, cosa ti piacerebbe leggere qui e se secondo te il basilico va messo fuori cottura o sotto il fiordilatte.
ANNUNCIAZIO’ ANNUNCIAZIO’: CHE PIZZA - IL PODCAST RITORNA!
Prima di entrare nel vivo della newsletter ci tengo a gioire per il ritorno, tanto sofferto, della quarta stagione del podcast, di cui trovi il primo episodio qui sotto.
Perché sofferto? Chi ci segue da tempo sa che eravamo in due a condurlo. Ma Simon, purtroppo, ha dovuto mollare per impegni di lavoro, dichiarandolo in un annuncio strappalacrime nell’ultimo episodio della scorsa stagione (in realtà il suo annuncio era tranquillissimo, sono io che l’ho reso strappalacrime con il montaggio).
I mesi dell’elaborazione del lutto sono stati per me molto duri, ma l’enorme supporto della community mi ha spinto a partire con la quarta stagione, anche se da solo. Che poi, da solo, non lo sarò davvero, ma di questo parlo proprio nel primo episodio…
Tra l’altro ho deciso di lanciare un ulteriore esperimento (il nostro podcast è sempre stato un po’ sperimentale), e di portare questa newsletter nel podcast. Visto che non a tutti piace, come al sottoscritto, svegliarsi alle 6.30 del mattino e leggere da un tablet con il caffè in mano; o magari non hanno tempo per farlo; oppure sono ipo/non vedenti, allora ho voluto realizzarne un’edizione audio. Per cui ogni fine settimana, diciamo il sabato, uscirà una puntata del podcast che sarà la lettura dell’ultimo numero della newsletter. Ecco un esempio qui sotto. Fammi sapere se ti piace l’idea.
(per forza di cose, la versione audio non avrà tutte le caratteristiche di quella scritta: mancheranno le news e i link alle letture interessanti, così come il video di chiusura)
NAPOLI, IL CIBO E IL PROBLEMA DELL’OVERTOURISM
Il numero di questa settimana mi è stato ispirato da un video bellissimo di Storie di Napoli, un network regionale di cui ho seguito tutta la fantastica evoluzione nell’ultimo decennio, e con il quale ho avuto più volte l’onore di collaborare.
Il video affronta gli effetti dell’intensa stagione turistica che Napoli sta vivendo negli ultimi anni, che forse sta portando più conseguenze negative che benefiche. Non voglio riassumerlo, perché affronta in realtà argomenti di comunicazione dettagliati e sarebbe davvero riduttivo da parte mia. Quindi ti invito a guardarlo prima di proseguire nella lettura.
Una delle problematiche accennate è quella delle gentrificazione, ovvero del centro storico che si trasforma in un enorme bed and breakfast e caccia i residenti dal centro impedendo loro di vivere a causa del costo eccessivo degli affitti. Un fenomeno comune a tante città che hanno vissuto un boom turistico, e di cui Le Monde aveva già parlato paragonando Napoli a Barcellona.
Altro spunto è quello dell’associazione di Napoli a immagini non proprio edificanti, tra cui quelle connesse al food porn. Ed è da qui che voglio partire, concentrandomi sul tema di questa newsletter.
Facciamo un passo indietro. Napoli ha cominciato a essere riscoperta dai turisti, dopo essere finita nel dimenticatoio per almeno cinquant’anni, intorno alla metà del decennio scorso. Principalmente dagli stranieri prima ancora che dagli italiani. Possiamo cercare le motivazioni di questa popolarità in diversi fattori concomitanti: l’arrivo di Ryanair all’aeroporto di Capodichino; la stagione degli attentati terroristici in diverse città d’Europa (tra il 2015 e il 2019: sei a Londra, cinque a Parigi, Manchester, Nizza, Bruxelles, Berlino, Instanbul, Stoccolma, Strasburgo e altre città minori) che ha portato molti a modificare i propri piani di viaggio; una serie di articoli pubblicati su testate rilevanti quali il New York Times o la guida di Rick Steves; probabilmente anche il successo internazionale di una serie come Gomorra ha contribuito, nonostante non mostrasse il lato più allegro della città.
Ma tra tutti questi c’è un fenomeno probabilmente sottovalutato ma che a mio parere - e non credo solo il mio - ha sicuramente contribuito alla preferenza verso Napoli come meta turistica, soprattutto per quanto riguarda il turismo interno. Ed è il rinascimento della pizza napoletana che ha tenuto banco per tutto il decennio scorso.
In generale negli anni ‘10 c’è stata una riscoperta della pizza come alimento in tutta Italia, grazie alle numerose manifestazioni innovative che si sono tenute da nord a sud. Ma la pizza napoletana, in quanto simbolo del piatto per eccellenza, ha rubato la scena a tutti: dall’esplosione milanese all’ascesa della scena casertana, fino all’imposizione delle pizza star in tv e sui social media.
Un pizzaiolo più di tutti è stato il portavoce, nonché l’artefice, di questa improvvisa popolarità mediatica: Gino Sorbillo. Ora, su di lui ci sarebbe da scrivere un libro a parte (lo hanno fatto), o farne una puntata di un podcast da due ore (la faremo?). Ma basta accennare al fatto che la sue apparizioni televisive a fianco della Clerici hanno portato una pizzeria che godeva già di una certa reputazione a Napoli alla ribalta nazionale (e successivamente una catena con sede anche a New York).
Sorbillo è stato il primo a fare da ponte tra i vecchi e i nuovi media - la televisione prima, e un uso massiccio dei social poi - raggiungendo milioni di persone. Improvvisamente il fenomeno della fila di un’ora che prima era una regolarità del sabato sera ha cominciato a svilupparsi anche all’ora di pranzo durante la settimana (data la sua posizione centrale la pizzeria è sempre stata piena a pranzo, ma ricordo che fino a pochi anni prima del boom ci si poteva tranquillamente sedere senza file di sorta anche alle due del pomeriggio).
Il successo di un business ricade spesso anche sulle attività circostanti che proliferano attorno a quell’economia. Nel caso di Sorbillo, la visita di così tante persone nella zona dei Tribunali ha significato indotto per i bar, i negozi di souvenir e gli alimentari della zona. Anche solo un tarallo acquistato per placare la fame nell’attesa della fila può significare per il commerciante vicino un ottimo incasso a fine giornata se moltiplicato per il numero di potenziali clienti nella zona.
Intendiamoci, non sto dicendo che Sorbillo da solo abbia rigenerato l’intera economia turistica napoletana, ma sicuramente ha la sua buone dose di credito. Chi ha scoperto la pizza grazie a Sorbillo, ha scoperto anche Napoli grazie alla pizza. Lo stesso tipo di impatto causato da un brand come L’Antica Pizzeria Da Michele, che guarda caso ha cominciato l’espansione del suo franchise proprio nel decennio in cui si è capito che la pizza napoletana poteva vivere tranquillamente fuori dalle mura cittadine. Perché la gente la desiderava. E nel corso del tempo, nomi di pizzerie storiche conosciute fino a quel momento solo ai napoletani, hanno cominciato a fare la comparsa nelle conversazioni sul tema di blog, forum e articoli stranieri.
Improvvisamente, fare una toccata e fuga a Napoli ai turisti non poteva più bastare. Una cosa che ho sempre lamentato in passato è come Napoli fosse una meta di transito per tutti gli stranieri che atterravano all’aeroporto solo per dirigersi direttamente a Capri, Sorrento o Positano. L’approdo di un pacchetto turistico che non contemplava mai più di tre ore nella città, nonostante la sconfinata quantità dei suoi monumenti e bellezze artistiche.
Questo era anche frutto di una scelta deliberata: Napoli era la città che subiva la triste reputazione di essere un luogo inavvicinabile a causa di furti, truffe, scippi, sparatorie e criminalità varia. Per non parlare dell’emergenza rifiuti che pure non ne diede un’immagine attraente al mondo, e dalla quale ne uscimmo solo nel 2012. Questo non faceva bene neanche al turismo interno: era molto più facile che fossero gli italiani stessi a rifiutarsi di venire.
Ma in quel periodo, un altro fenomeno prese piede: quello dei food blogger. Intesi non come appassionati di cucina e scrittori di ricette, ma come storyteller del cibo, divagatori in cerca della pietanza più succulenta, gustosa, spesso anche eccessiva. Capostipite del filone fu sicuramente Egidio Cerrone, alias Puok e Med (oggi lui stesso un piccolo imprenditore nell’industria gastronomica). Le sue “avventure culinarie” lo portavano alla ricerca dei locali più sconosciuti, dove l’abbondanza era imperante. I racconti del suo blog raggiunsero un ottimo seguito. Tra l’altro, il successo del blog di Cerrone rappresenta forse uno dei canti del cigno più acuti di un’epoca che stava vedendo piano piano l’abbandono del long form in favore dei social media. Puok fu tra i primi a comprendere la potenza mediatica dei social, e di lì a poco abbandonò il blog per spostarsi su Instagram, dove consacrò il suo successo.
Come tante pietanze, la pizza era onnipresente nei suoi racconti, che ormai si riducevano a una didascalia che accompagnava un’immagine satura di colori. Il modello fu replicato da una miriade di altri profili, alcuni di successo, altri meteore del momento. Il food porn napoletano stava prendendo la sua forma più completa, e l’orgoglio campanalista si esprimeva benissimo nel piatto simbolo della città. Sui menù di moltissime pizzerie cominciarono a comparire ingredienti improbabili, dai crocché poggiati direttamente sul disco di pasta, alle immancabili creme di pistacchio. Accostamenti spacciati per gourmet che non avevano alcun criterio dal punto di vista gustativo, ma pensati solo col principio di figurare bene in foto.
Questa narrazione del cibo come intrattenimento ha sicuramente giocato un ruolo di primo piano nell’attirare l’attenzione dei “forestieri” italiani. E se il cibo chiama turismo e business, ne viene di conseguenza che chiunque abbia la possibilità di investire in un’attività a ritorno sicuro si lancia su quel genere di offerta che piace tanto ai visitatori e che può ottimizzare anche tempistiche e guadagni: il cibo da strada veloce, saporito, quasi sempre fritto. C’è chi oggi non si fa problemi a dire che Napoli sia diventata praticamente una rosticceria a cielo aperto. E quando parliamo di street food, anche qui la pizza la fa da padrona, tra portafoglio e fritta.
Nel dicembre 2017 c’è poi un altro punto di svolta: il riconoscimento dell’arte del pizzaiuolo napoletano dall’UNESCO, che tanto orgoglio ha procurato ai portavoce di un mestiere storicamente sottovalutato e bistrattato. E che allo stesso tempo ha acceso un enorme riflettore globale sulla città di Napoli. La città si è ripresa di diritto la primogenitura di un piatto che ha poi viaggiato nel mondo dimenticando le sue radici. Improvvisamente, tutti volevano venire a Napoli. Anche e soprattutto gli americani, che hanno sempre visto nella pizza un loro orgoglio nazionale, hanno capito che per poter godere del “real deal” dovevano incontrare Partenope.
Se il turista medio italiano ed europeo non è certo altospendente e si accontenta di piccoli monolocali e ostelli, quello d’oltreoceano ha invece degli standard molto più elevati. E l’offerta alberghiera tiene volentieri il passo. I b’n’b improvvisati che una volta si collocavano in piccoli bassi oggi prendono sempre di più lo spazio di interi piani di palazzo. Ampi, multicamere, eleganti. E costosi. Non più la stanzetta da 40€ a notte da affittare su AirBnB, ma location che fanno invidia ai migliori hotel del lungomare anche per il loro posizionamento nel centro storico, che catapulta immediatamente il turista in quel caos sporco e rumoroso che tanto gli piace riprendere dal suo smartphone.
E a proposito di smartphone: i fenomeni social non sono certo finiti. Instagram volge al tramonto mentre si fa strada il suo concorrente più spietato, TikTok. Le foto saturate di bomboloni e hamburger a tre piani non rendono più: oggi non è il cibo a essere protagonista, perlomeno non direttamente. L’epoca dei video si concentra sui personaggi: e di quelli, in tutte le epoche, Napoli non è mai stata carente. Il genio artistico napoletano ha trovato felice espressione in una piattaforma che premia le macchiette e la ripetitività dei tormentoni in stile Zelig. E così le urla di quartiere dei pescivendoli raggiungono con i video milioni di persone. E la semplice idea di chiedere ai propri clienti se si vuole il proprio panino “con mollica o senza” è lo spunto giusto per creare un proprio business da zero con file chilometriche.
Se parliamo di pizza, sicuramente il fenomeno social per eccellenza sulla piattaforma cinese è Errico Porzio. Il pizzaiolo aveva già cominciato l’espansione del suo business poco prima di approdare sulla piattaforma, ma il successo su TikTok, con un milione di follower, ha accelerato la crescita portando il numero dei suoi locali ai ventidue attuali. Molti dei suoi clienti vengono da tutta Italia dichiarando esplicitamente di aver intrapreso il viaggio per mangiare da lui, magari nella speranza di incontrarlo. Porzio è al pari di una celebrità che difficilmente riesce a camminare per strada senza incrociare persone che gli chiedano un selfie (mentre scrivo sono a un festival della pizza a Milano con lui presente, e ho assistito alla stessa scena anche qui). Un singolo pizzaiolo capace di far muovere anche centinaia di persone verso Napoli, solo per poter scattare una foto con un tag.
Ma adesso, al termine di questo lungo pezzo, dovremmo forse cercare una risposta alla domanda del titolo di questa newsletter? Be’, è chiaro che una risposta non esiste. Le dinamiche sono sicuramente complesse, e lo spunto del video di Storie di Napoli mi è servito semplicemente per analizzare un fenomeno, quello del turismo di massa, focalizzato su pizza e cibo. Chiariamoci, io sono davvero convinto che il lavoro di comunicazione portato avanti dai pizzaioli e altri colleghi nella ristorazione abbia fortemente influito sul successo turistico di Napoli, assieme agli altri fattori elencati. E preferisco vedere una Napoli ricercata dal mondo, scoperta anche oltre le sue pietanze, rispetto al vederla ingiuriata e rifuggita come pochi anni fa.
Siamo però passati da 1 a 90, come si dice dalle nostre parti: la crescita non è stata graduale, ma immediata, e la città forse non era pronta a questo. Il fenomeno della gentrificazione è solo uno dei tanti problemi. Anche il fatto di associare il “brand Napoli” a un’immagine macchiettistica ed eccessiva non fa bene alla nostra reputazione, come sottolineano bene i ragazzi di Storie di Napoli. E da questo punto di vista, anche qui giocano un ruolo di primo piano molti pizzaioli, che nel loro tentativo di comunicazione a tutti i costi fatto di guagliù e tricchebballache si rendono spesso dei Pulcinella derisi anche dai napoletani stessi. Sì, ci fa piacere che i turisti poi riempiano le pizzerie e facciano girare l’economia della città. Ma a che prezzo?
Questa settimana la newsletter termina qui, senza le rubriche accessorie. Il pezzo mi ha occupato diverse ore di lavoro su più giorni mentre sono in viaggio, e non ho avuto il tempo di effettuare altre ricerche. Mi sono comunque divertito molto a scriverlo. Fammi sapere se ti è piaciuto e cosa ne pensi con un commento, ci tengo davvero tanto.
Grazie di aver letto fin qui.
Giuseppe A. D’Angelo: scrivo di pizza dal 2015 sul mio blog Pizza DIXIT e anche altrove. Dal 2021 conduco un podcast chiamato Che Pizza assieme al suo creatore Simon Cittati. Ho un gruppo Facebook chiamato Pizza Social. Nella vita mangio anche altro.
Post-credit scene
Se hai ricevuto questa newsletter via email ti sarai accorto che il sottotitolo originale era "e l'invasione dei distributori di pizza automatici".
Praticamente è diventato uno spoiler di una delle prossime newsletter, perché era un argomento che volevo trattare in questo numero, ma poi mi è uscita talmente lunga che ho tagliato tutto alla fine e ho chiuso per la pubblicazione.
Solo che nella fretta di pubblicare ho dimenticato di cambiare il sottotitolo... 😅
Al momento della mia dipartita da Napoli, nel 2003 camminavo in una spaccanapoli semideserta, oggi non riesci a fare un passo senza urtare il gomito con qualcun altro... i negozianti ti coccolavano anche se spendevi 10 euro, i napoletani erano i loro unici clienti e bisognava trattarli bene., oggi dai quasi fastidio perchè c'è il turista che sicuramente spenderà molto più di te.... per andare a vedere il cristo velato bastava presentarsi alla biglietteria e in un attimo eri dentro, oggi devi prenotare un anno prima..... le bancarelle ti permettevano di comprare a prezzi stracciati oggetti utili come cinture, marsupi, libri usati, oggi sono sparite perchè poco decorose.... Potrei continuare con gli esempi ma credo di aver reso l'idea, perciò se lo chiedete a me rispondo egoisticamente e provocatoriamente: "ridatemi la mia Napoli degli anni 90!".
Ma ovviamente bisogna fare un discorso asettico e oggettivamente è preferibile la Napoli "invasa" a quella "invisa"... intanto credo che già oggi quei mestieri legati al turismo si possono esercitare nella propria città invece di doverli fare necessariamente da emigrante e l'auspicio e che a tendere anche professioni specialistiche e carriere possano realizzarsi restando (se lo si vuole ovviamente) nel luogo natio. Siamo (e inconsciamente metto la prima persona perchè mi sento ancora parte di questa città) sulla strada giusta? Difficile dirlo.... come hai detto tu il traino principale è stata la pizza in primis e poi il cibo a tutto tondo... due domeniche fa ero nel treno da Napoli per Roma, dietro di me due signore con accento settentrionale hanno attaccato bottone con una signora napoletana, solite domande di rito, quando siete arrivate, vie è piaciuto, cosa avete fatto, ebbene la risposta è stata la descrizione di 4 giorni di magnate (erano arrivate il giovedì)!!! Ora non credo che non avessero visitato anche siti culturali (almeno lo spero) ma il fatto che questi fossero poco interessanti da raccontare rispetto al cibo la dice lunga. Il rischio è proprio quella di appiattirsi su questo tipo di appeal (passando da uno stereotipo all'altro, magari meno negativo ma pur sempre stereotipo) e perdere l'occasione di mostrare a chi viene da fuori che la nostra offerta può essere tranquillamente a 360°, che poi è un po' quello che dicevano nel video (e anche tu in varie occasioni ci hai tenuto a ribadire che il napoletano non è sempre quella figura incisa nell'immaginario collettivo). Non so se questo sta avvenendo e in quale misura, non so se i turisti, inizialmente attratti dal cibo tornano a casa con un arricchimento più generale rispetto alle attese, ma spero che si capisca che gli sforzi devono essere indirizzati in questa direzione.
Ho scritto un papiello, spero di non tediare chi eventualmente leggerà il commento.... :-)