Ciao. Sono Peppe e nell’ultima settimana in cui ho saltato la pubblicazione ho avuto modo di fare una riflessione da applicare su questa newsletter. Riguarda la salute mentale. Che detta così sembra chissà che riflessione grossa avrò fatto, ma non è neanche da sottovalutare. Te ne parlo più sotto. Per ora gettiamoci a capofitto nel primo argomento della settimana.
AVETE ROTTO LE PALLE CON STI STEREOTIPI SUGLI ITALIANI E IL CIBO
Sì, nel titolo di questo paragrafo trascendo un po’. Ma perché non sto facendo altro che sfogare la mia frustrazione sull’ennesimo video burla in stile “Italians mad at food”.
La scena è questa: un turista va all’Antica Pizzeria Da Michele, chiama la cameriera e le chiede del ketchup da versare sulla pizza. L’inquadratura si concentra sul volto a metà tra l’incredulo e lo sconvolto della cameriera che rifiuta e se ne va. Al che il turista si appresta subito a giustificarsi dicendo “Scherzo, scherzo”. Il video diventa virale con 4 milioni di visualizzazioni.
Qual è il problema? Non il protezionismo di parte (ripeto: PARTE, me compreso) degli italiani sul proprio cibo. Ma il fatto che sia diventato oggetto di sberleffo. Non da mo’, eh, sia chiaro. È uno dei meme più in voga sugli italiani, e ci scherziamo tranquillamente sopra anche noi stessi. Ma negli ultimi tempi è diventato un tormentone allucinante che ha preso possesso di Instagram.
L’ultimo dei trend è infatti quello del turista che si filma nel ristorante italiano mentre gioca il simpatico scherzo a un cameriere chiedendo improbabili condimenti o bevande fuori luogo per quelle che sono le nostre abitudini a tavola. E se la ride di gusto aspettando la reazione scioccata alla sua richiesta.
Insomma, l’italiano ridotto a scimmietta da zoo che “vediamo che succede se gli lanciamo una nocciolina”: è un po’ questa la figura che ci stiamo facendo. Ma il problema nel problema è che noi stessi siamo colpevoli e compiacenti del modo in cui ci vedono i turisti: il video in questione è stato infatti ricondiviso dal profilo della pizzeria Da Michele. Se lo avessero lasciato lì dov’era probabilmente lo avrebbero guardato in quattro gatti.
Evidentemente a noi piace farci perculare. In un altro video due turiste americane chiedono un cappuccino a pranzo con la pasta, riprendendo la reazione basita del cameriere, che farà di tutto per portarglielo più tardi a fine pranzo. La scenetta è quanto più di artefatto si può immaginare. Il cameriere ha la risposta pronta, guarda in camera, ride: difficile non pensare che non fosse d’accordo con le simpaticone.
Ma non fa niente, se anche non fosse così: ci ha già pensato la tipa che alzava il cartello in piazza Pantheon a Roma con la scritta “No cappuccino after 12 pm”, a levare ogni dubbio sulla nostra rigidità, assieme altri cartelli contro varie supposte blasfeme violazioni gastronomiche. Video architettati ad arte da un’agenzia turistica per far parlare di sé.
Uno mi potrebbe pure obiettare “maddai, si fa per scherzare, e levati sta scopa dal culo” (sì, trascendo ancora di più). Legittimo, la si può certamente vivere più alla leggera. Io però non ci sto a perpetuare lo stereotipo dell’italiano provincialotto e retrogrado, una maschera di Pulcinella che si può sbeffeggiare e bastonare a piacere. Perché è la stessa mentalità che alimenta poi quella credenza che l’Italia sia una sorta di parco giochi a uso e divertimento del turista, dove tutto è concesso. Lo stesso atteggiamento che porta i turisti a lanciarsi con uno scooter per le scalinate di Trinità dei Monti o a girare in motorino nel parco archeologico di Pompei. E mi si perdoni se io pretendo per la mia persona lo stesso rispetto che pretendo per il mio patrimonio.
Che poi, manco a dire fossimo gli unici ad avere questo genere di ossessioni nei confronti delle nostre abitudini alimentari. Quando nel 2014 a inizio mandato il sindaco di New York Bill de Blasio venne immortalato in una pizzeria di Staten Island a mangiare la pizza con la forchetta, la stampa americana non ci pensò due volte a sottolineare come stesse tradendo la sacra usanza nazionale di mangiare la pizza con le mani, parlando addirittura di #forkgate. Poi vabbè, anche lì erano frizzi e lazzi, ma i titoloni intanto fioccavano: perché se c’era chi se la giocava con l’ironia, c’era anche chi ne approfittava per buttare fango sull’avversario politico. Manco chissà quale crimine di guerra avesse commesso.
Da appassionato l’ho ritenuto un episodio molto affascinante, un piccolo spaccato di quotidianietà che si lega a una tradizione ben specifica. Ci scherzerei volentieri sopra con un newyorchese così come mi piace scherzare delle nostre piccole ossessioni. La sintesi del mio sfogo è quella: ridiamoci su assieme e facciamone un’occasione di scambio culturale. Non usiamo gli stereotipi sulle idiosincrasie alimentari come un’arma di dileggio che ci pone su un piano di superiorità. Anche perché, diciamoci la verità, quasi tutte le culture ne hanno di ogni.
Anzi, lo chiedo a te: qual è l’episodio di protezionismo sul cibo che hai sperimentato in qualche paese che più ti ha colpito? Scrivimelo pure in un commento.
TO LINK OR NOT TO LINK
Martedì 10 ottobre è stata la Giornata mondiale della salute mentale. Un tema che abbiamo affrontato più volte nel podcast e in altre sedi e che è talmente vasto che può dipanarsi in mille argomenti: dai pensieri suicidi all’affaticamento da lavoro.
Ma non bisogna sottovalutare anche i micro attacchi al nostro cervello che subiamo costantemente in quest’era di sovraccarico di informazioni. Avrai forse notato che nella prima parte di questa newsletter manca qualcosa: i link. Tutti i riferimenti a fatti, cose e persone sono stati riportati senza uno straccio di collegamento ipertestuale.
La cosa va contro tutto quello in cui credo. Il perché te lo spiego nel prossimo paragrafo. In questo voglio focalizzarmi sulla mia decisione di rimuoverli.
Cliccare su un link per me è la quintessenza della FOMO. Vedo un titolo potenzialmente interessante, non ho davvero il tempo di approfondire, ma allo stesso tempo penso: “e se mi stessi perdendo qualcosa di potente? D’altronde non mi piace essere superficiale, e se leggo una newsletter su un tema che mi piace è proprio perché voglio che ci sia anche questa selezione di contenuti per me”. Quindi spesso clicco. Molte volte avevo ragione, altre volte mi rendo conto che è un contenuto di cui potevo fare a meno. Difficilmente però abbandono, leggo lo stesso fino alla fine perché “non si sa mai, intanto il mio bagaglio culturale si amplia e quelle informazioni possono sempre tornare utili”.
Vana speranza: c’è solo un certo numero di informazioni che il mio cervello è in grado di processare e trattenere, e il tempo è così limitato. Leggere mi piace, e spesso lascio la lettura di una newsletter a metà nella parte dei link per recuperarli più tardi (e nel frattempo, queste si accumulano). Eppure noto una cosa. Quando ci torno sopra noto che il mio desiderio di recuperare quei link non è più intenso come la prima volta. Banalmente, l’astensione era la soluzione. E da qui la mia decisione.
Per cui da oggi in poi bandisco tutti (o quasi) i link dalla mia newsletter. Magari tu che leggi sai gestire meglio le tue risorse mentali, e per questo ti ammiro. Ma preferisco comunque non farti cadere in tentazione.
MA PERCHÉ METTIAMO COSÌ TANTI LINK?
Questa newsletter segue (perché lo copia) un modello molto in voga tra quelle italiane: dopo uno o due pezzi di apertura, si passa alle rubriche di selezione di contenuti. Un formato che ad esempio è sconosciuto oltreoceano, dove le newsletter seguono l’impostazione del saggio di approfondimento.
Come mai? Perché a noi che scriviamo ci piaccono così tanto i link? Io ho fatto qualche ipotesi, almeno per quanto mi riguarda.
Perché amiamo condividere. È la strategia social, trovo qualcosa che mi piace davvero e credo non sia giusto tenermela per me, voglio che anche altri appassionati la conoscano. E, un po’ come quando consigliamo quel posticino dove mangiare, ci fa piacere che ci riconoscano la paternità della “scoperta”.
Perché ci danno autorevolezza. I link sono fonti che corroborano quello che diciamo. Chi ci legge può verificare con un click che i nostri testi non sono campati in aria, ma si basano su fatti verificabili.
Perché ci fanno sembrare intelligenti. Non nascondiamolo, mostrare che giriamo per il web a leggere articoli, soprattutto stranieri, ci dà un certo tono. Di quelli che leggono, si informano, hanno contatti con il mondo e non si lasciano sfuggire nulla, portanto all’attenzione del pubblico ciò che il pubblico magari non è un grado di ricercare. Dimostra che siamo competenti.
Perché è giusto. Questo è per me il punto più importante. Se scrivo un testo attingerò sempre al lavoro di qualcun altro. E quella persona merita di essere riconosciuta come la penna che mi ha permesso di accedere a quell’informazione, digerirla e rielaborarla. Si tratta di un patto silenzioso di mutuo rispetto tra scrittori. O, perlomeno, dovrebbe essere così. Troppe volte mi è successo che un pezzo su cui ho impiegato tanto lavoro sia stato prelevato di peso e riportato su un’altra testata senza uno straccio di citazione. E non fa piacere. Per questo motivo, non voglio essere io il responsabile di un comportamento così disdicevole.
Ma allora, l’ultimo punto non cade un po’ in contraddizione con la scelta che ho deciso di prendere? Come farò ad esempio per la rubrica delle news o delle letture interessanti? Semplice: metterò sempre la fonte di riferimento tra parentesi, che sia un sito, un libro o quant’altro. In questo caso, se davvero ti interessa approfondire l’argomento, tutto quello che dovrai fare sarà ricercarla su Google. Dal momento che questo ti richiederà del lavoro in più da svolgere, sarai tu a capire se varrà la pena investire ulteriori energie. E magari, chi lo sa, l’atto fisico della ricerca stessa ti aiuterà a memorizzare meglio il contenuto.
Oppure, se proprio un pezzo ti interessa davvero ma non riesci a trovarlo, puoi anche chiedermi il link diretto nei commenti. Non voglio essere così rigido, in quel caso avrai fatto comunque quello sforzo in più che mi fa piacere ricompensare.
Sarei proprio curioso di sapere cosa ne pensi di questa mia scelta. Lasciami un commento e dimmi se sei d’accordo, ma soprattutto se non lo sei.
LA PUNTATA DELLA SETTIMANA DI CHE PIZZA - IL PODCAST
Abbiamo incontrato Roberta Esposito, pizzaiola e manager del ristorante-pizzeria La Contrada di Aversa, che ha ottenuto numerosi riconoscimenti, soprattutto nell’ultimo periodo. Roberta, che ha un passato da sommelier e da sala, si è convertita per necessità in pizzaiola per il locale di famiglia, scoprendo in sé un talento che si è evoluto in un’offerta gastronomica originale e di livello.
Con lei abbiamo parlato di come avvenga il passaggio dalla sala al bancone, del processo creativo e manageriale con cui ha riammodernato il locale portandolo all’attenzione del pubblico, di comunicazione e gestione. Ma soprattutto, di cosa significhi essere una pizzaiola donna a capo di un’attività in un ambiente ancora a maggioranza maschile.
Un argomento che avevamo già toccato qualche anno fa per il mio documentario pilota sulla pizza al femminile (di nuovo, chiedimi il link se vuoi vederlo), e che oggi mi ha riservato non poche sorprese nella sua risposta…
COSÌ TANTI ARTICOLI, COSÌ POCO TEMPO…
Letture interessanti qui e là dal web, ma non solo
L’avanzata della pizza romana ora può contare su un’associazione sostenuta da Bonci - Pina Sozio, Gambero Rosso
Copenaghen, piano piano, è diventata un paradiso per gli amanti della pizza (e del ramen) - Andrew Kirell, The Daily Beast
La storia di Mike Carter, New Jersey, che da cuoco di un penitenziario è diventato uno dei pizzaioli più capaci della sua regione - Sydney Page, The Spokesman Review
Visit Detroit lancia il Detroit Pizza Passaport - Breaking Travel News
Un pezzo d’epoca: passato, presente e futuro di Pizza Express, la catena londinese che ha imposto lo stile romano in 700 locali nel mondo (e che a Londra ha unito pizza e jazz) - Ellie Muir, Time Out
Come il pizzaiolo Vincenzo Esposito, nella sua pizzeria Carmnella, porta l’amore per il territorio campano con la carta delle Margherite - Giuseppe A. D’Angelo, Culinary Backstreet (sì, questo l’ho scritto io :P)
E PER CHIUDERE CON MALINCONIA…
Ultimamente sono diventato drogato di un canale suggerito dal sempre misterioso algoritmo di YouTube: Omeleto, una raccolta di cortometraggi internazionali (per lo più anglo-americani). Con molta furbizia il proprietario del canale non mette solo il titolo del cortometraggio nel titolo del video, ma anche una breve sinossi che ti invoglia all’attenzione.
Da qui ho visto il corto Hold Up. Che a un certo punto porta i due protagonisti a New York in una pizzeria, dove uno dei due, un immigrato eritreo, racconta che il suo paese era una colonia italiana e per questo sua nonna parlava italiano e faceva “la pizza migliore del mondo”. Che è un po’ quello che ci piace dire di tutte le nostre nonne.
Il corto non gira certo attorno alla pizza, anche se il dialogo in pizzeria è un momento di passaggio significativo. Ma ti consiglio di vederlo comunque perché la storia è profonda e tocca qualche corda che nemmeno te ne accorgi.
Ehi, ehi, ehi, non andare via! Se ti è piaciuta la newsletter lascia un cuoricino. Se non ti è piaciuta, scrivimi nei commenti perché. Vabbe’, fallo anche se ti è piaciuta. No, davvero, ci tengo: non tenerti tutto dentro per te, questi pezzi li condivido anche per sapere cosa ne pensi. E se hai amici appassionati di pizza fagliela conoscere cliccando sul pulsantino qui sotto.
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Grazie di aver letto fin qui.
Giuseppe A. D’Angelo: scrivo di pizza dal 2015 sul mio blog Pizza DIXIT e anche altrove. Dal 2021 conduco un podcast chiamato Che Pizza assieme al suo creatore Simon Cittati. Ho un gruppo Facebook chiamato Pizza Social. Nella vita mangio anche altro.