Perché gli italiani sono ossessionati con il loro passato gastronomico?
e cosa mi stufa di certi articoli food
Ciao, sono Peppe, e durante l’estate non faccio mai vacanza. Anzi, al contrario, generalmente lavoro il doppio. Per questo già so che la settimana prossima la newsletter non uscirà. Non che sia la prima volta che succede, da che l’ho iniziata ho già avuto due buchi memorabili. Però almeno stavolta ho la decenza di annunciarlo.
L’OSSESSIONE DEGLI ITALIANI PER I FASTI DEL PASSATO
Ultimamente rimugino su una cosa sulla quale in realtà penso già da un po’: ma perché quando in un articolo gastronomico si parla di una specialità del nostro territorio, già al secondo paragrafo se ne decantano le origini storiche?
No, mo’ adesso non è che voglio fare l’Alberto Grandi della situazione, e cominciare a smontare le origini di tutte le nostre specialità tipiche. Ma voglio soffermarmi proprio su un topos ricorrente negli articoli di cibo che si leggono qui in Italia. Facci caso: appena si deve raccontare di un alimento, di un piatto o anche solo di un metodo di produzione del cibo, la prima cosa che si fa non è descriverlo (nei suoi sapori, nel suo utilizzo, nei suoi artefici). No, si compie immediatamente un viaggio nel passato che comincia con le tipiche locuzioni “conosciuto già dagli antichi XXX”, “già le popolazioni XYZ lo utilizzavano” e simili.
Spesso questo avviene quando si parla di una varietà alimentare poco conosciuta, magari una IGP dai confini territoriali ridotti. Oppure quando qualche gastronomo si dedica a delle pratiche culinarie innovative. Che però, guarda caso, hanno sempre delle origini antiche, una qualche riscoperta di metodi atavici e perduti nel tempo, di cui però si hanno sempre immediatamene le fonti a portata di mano di qualche scrittore dell’antica Roma o su incunaboli medievali. Quando, il più delle volte, la metodologia applicata è stata solo “rubata” ai nonni della zona e resa cool con uno shooting fotografico.
La narrazione delle origini però quasi mai entra nel dettaglio, né si compie un excursus storico (a meno che l’articolo stesso non sia incentrato proprio su quello). Rimane invece tutto nel vago, e si ritorna in un battito di capoverso alla storia contemporanea. Senza un legame di nessun tipo tra le tradizioni del passato e quelle attuali. E allora io mi chiedo: a che pro? Voglio dire, cosa aggiunge tutto ciò al racconto, se non stai scrivendo un manuale di storia dell’alimentazione?
L’idea che mi sono fatto è che delineare i legami storici di un cibo/bevanda/metodo produttivo dia particolare autorevolezza a questi ultimi. Ma ancora di più, e qui voglio essere un po’ cattivo, a chi li promuove e racconta, giornalisti compresi. Insomma, citare le sacre scritture fa apparire sempre un po’ colti, e dà valore al proprio lavoro. Anche se spesso si tratta di citazioni improprie, estrapolate fuori contesto, di testi e autori che non si è mai letti davvero, e che spesso ci sono propinati come un fatto appurato che noi siamo ben lieti di riportare senza le dovute verifiche.
Un esempio, per restare nell’ambito di questa newsletter? La storiella, che ancora vediamo riportata in libri e articoli, che la pinsa fosse un piatto tipico degli antichi romani, e lo si vede nel nome che deriverebbe dal latino pinsere, schiacciare. Una storia che continua a perpetuarsi quando lo stesso Corrado Di Marco, ideatore del prodotto, ha dichiarato di essersela inventata come operazione di marketing.
Eppure è strano che questa tendenza del “mito delle origini” sia ancora così presente negli articoli gastronomici, quando da qualche anno a questa parte abbiamo assistito a un’inversione di tendenza che ha visto proprio alcuni personaggi costruire la propria reputazione sul debunking. Il pioniere è stato sicuramente Dario Bressanini che, prima con i suoi articoli su Le Scienze, poi con i i suoi libri - Le bugie nel carrello e Pane e Bugie tra tutti - e infine con i video su YouTube ha dato input a tutto un filone di demistificazione che ha interessato il mondo gastronomico (ma non solo: la divulgazione scientifica “corretta” è uno dei trend più in voga sul tubo e sui social, da qualche anno a questa parte).
Altri autori hanno seguito le sue orme, come Michele Fino con il suo libro Gastronazionalismo, e lo stesso Alberto Grandi, che tanta popolarità ha raggiunto con la sua combo libro + podcast DOI - Denominazione di origine inventata e l’articolo del Financial Times (lo abbiamo intervistato per Che Pizza - Il Podcast). Cito naturalmente i libri più conosciuti - cioè, da me - ma l’elenco è lungo, tanto è vero che le stesse bibliografie di questi scritti in realtà si appoggiano a tante opere pubblicate anche decenni prima.
E anzi, a dirla tutta, anche il trend del debunking forse sta raggiungendo la sua saturazione, e ormai si lavora spesso con il concetto che occorra abbattere gli idoli, e andare alla ricerca di tutte le prove che sfatino i nostri miti, spesso facendo dichiarazioni anche un po’ improbabili. Per citare una persona che conosco, di cui non farò il nome ma sicuramente si riconoscerà in questa affermazione: “I profeti del debunking hanno un po’ rotto il… Mi ha stufato quell’impostazione di fare a gara a chi è più figo dicendo che l’uovo in realtà non l’ha inventato la gallina, ma i fabbricanti di uova di cioccolata”.
Alla fine, che si tratti di fatti storici reali, di leggende a cui ci piace abboccare, o di un’impenitente opera di smitizzazione, la domanda che mi pongo è: ma perché indugiare così tanto sul passato? Non possiamo concentrarci sul presente?
(naturalmente, se non sei d’accordo, lasciami pure un commento qui sotto)
QUALCHE CONSIGLIO PER SCRIVERE MEGLIO?
Che poi in realtà non è tanto il fatto che si indaghi sempre sul passato, che mi disturba, che alla fine sono sempre curiosità e fatti interessanti da conoscere. In realtà quello che mi da fastidio è vedere che c’è un appiattimento nella narrazione, e che un certo filone di scrittura gastronomica segua dei modelli preimpostati che rivelano più che altro una carenza di contenuti.
Ovviamente adesso non è che arrivo io a insegnare alla gente come si scrive, anche perché di mestiere non faccio quello, e vivaddio, se no starei già in mezzo alla strada (provo un enorme rispetto e ammirazione per chi riesce a campare di scrittura). Però, dai, qualche suggerimento su cose che non vorrei più leggere me lo voglio pure concedere.
Riferimenti alla pandemia. Ormai abbiamo capito che ha condizionato il mondo intero, a meno che non stiamo citando dati statistici pre e post non occorre nominarla ogni tre per due.
Affermare l’ovvio. Se una cosa è stata detta cento volte, perché ripeterla una centunesima? Un esempio? Basta con sta storia che non si trova personale nella ristorazione. Lo abbiamo capito, andiamo avanti e affrontiamo le soluzioni, non il problema!
Concludere con frasi retoriche. Tipo “staremo a vedere”, o “non ci resta che aspettare”. Chissà perché, molti ritengono occorra una chiosa efficace di poche parole per chiudere un testo, ma poi quelle parole sono sempre tra le più banali che possano trovare. Io dico che se hai chiuso bene un pensiero o un’affermazione, quel pensiero o affermazione non hanno bisogno di ulteriore sostegno.
Titoli. Da un lato, la vecchia scuola che ancora ti spara i clickbait di quelli forti e usa parole ridondanti come “shock” (tipo, questo pessimo esempio del Gambero Rosso, addirittura a caratteri cubitali sul magazine stampato). Dall’altro, la scuola Vice, dove il titolo è lungo quanto il pianto di un neonato e praticamente ti riassume tutto l’articolo, ma senza dirti nomi, cognomi, luoghi e motivazioni (tipo: Ho mangiato il gelato al ristorante sulla scogliera da dove si vede l’aurora boreale solo cinquantacinque minuti all’anno). Ma un bel titolo normale no?
E vabbè, anche per questa settimana la mia dose di acidità l’ho elargita…
LETTURE INTERESSANTI
Qui e là dal web, ma non solo
Su Gambero Rosso, si parla della pizzeria che ha aperto nella grotta della Cava d’Ispica, in Sicilia.
Su Cibo Today Lavinia Martini ci racconta le pizze dolci di Daniele Seu ispirate a merendine e gelati.
Sempre su Cibo Today, Martina Di Iorio parla con le proprietarie della pizzeria Locanda Sa Matracca, a Cagliari, che utilizzano i loro scarti alimentari per farci dei cocktail (un trend sempre più in voga anche all’estero).
Ancora su Cibo Today, il video-racconto di Alessandra De Cristofaro di La Matta, la pizzeria sociale di Scampia, a Napoli.
Il report di Jim Ellison su Columbus Underground della sua esperienza da Buddy’s, la pizzeria a cui si attribuisce la nascita della pizza Detroit Style (a questo stile di pizza è stata dedicata una giornata il 23 giugno).
Che cos’è la “tecnica della pizza” che in Catalonia utilizzano gli squatter, gli occupanti abusivi di case vuote, per appropriarsene? Ce lo spiega El Economista.
A proposito di Spagna: ma tu lo sapevi che in spagnolo la parola pizza si deve scrivere in corsivo, perché straniera? Ma tutti i suoi derivati, come pizzería o pizzero, no? E che l’ortografia locale della parola si sta adattando alla pronuncia spagnola perdendo la seconda z? Lo leggiamo su El Tiempo.
MERCATI
Fratelli La Bufala punta a espandersi del 30% nel 2023 e ad aprire laboratori di pizza senza glutine.
Glovo rivela che nel 2022 sono state consegnate il 45% di più di pizze rispetto all’anno precedente (per un totale di 3 milioni), con il Piemonte in testa per numero di ordini.
Infine, grazie mille a Francesca Musco, che su Eroica Fenice ha fatto un bellissimo riassunto del talk Patrimonio Napoletano all'interno del Pizza Villave, a cui abbiamo partecipato io e altri membri di associazioni culturali di Napoli. In particolare, ottimo il riassunto del mio intervento durato ben dieci minuti (il moderatore ci ha provato a fermarmi, ma hanno dovuto ascoltarmi fino a quando sono stato io a decidere quando smettere di parlare :D )
Giuseppe D’Angelo del blog Pizza Dixit invece tratta l’elemento glocal della pizza napoletana, dalle esigenze di un expat nasce una vera e propria guida per tutti i napoletani e gli italiani all’estero che cercano un autentico spicchio di casa.
La ricerca e l’esplorazione fatta da Giuseppe, ci mostra che spesso nei luoghi comuni e nei miti riguardanti la pizza esiste una comune sottotrama: l’orgoglio.
Presso il Las Vegas Pizza Expo infatti ha riferito di aver scoperto che anche in America esiste il mito dell’acqua, che a seconda delle città da cui proviene, può rendere la pizza più o meno buona; studi scientifici dietro l’arte del pizzaiolo mostrano però che il mito che l’acqua di New York sia la migliore per fare la pizza sia infondato.
Tramite questi elementi del folklore ma soprattutto tramite il piacere di stare a tavola la pizza unisce il mondo, abbatte i pregiudizi in grosse metropoli come Londra dove la pizza italiana era considerata poco appetibile, soggy, umidiccia o molle.
Il mondo cross-cultural, il benessere e la salute mentale nel mondo della ristorazione e la fama degli chef italiani nel mondo sono solo alcuni degli argomenti che D’Angelo affronta non solo sul proprio blog ma anche sul podcast Che pizza, l’iniziativa che aiuta non solo gli italiani all’estero a ritrovare i luoghi della tradizione ma anche gli esperti del settore a fare divulgazione.
Ehi, ehi, ehi, non andare via! Se ti è piaciuta la newsletter lascia un cuoricino. Se non ti è piaciuta, scrivimi nei commenti perché. Vabbe’, fallo anche se ti è piaciuta. No, davvero, ci tengo: non tenerti tutto dentro per te, questi pezzi li condivido anche per sapere cosa ne pensi. E se hai amici appassionati di pizza fagliela conoscere.
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Grazie di aver letto fin qui.
Giuseppe A. D’Angelo: scrivo di pizza dal 2015 sul mio blog Pizza DIXIT e anche altrove. Dal 2021 conduco un podcast chiamato Che Pizza assieme al suo creatore Simon Cittati. Ho un gruppo Facebook chiamato Pizza Social. Nella vita mangio anche altro.
Rido perché stavo proprio scrivendo una ricetta e già al secondo paragrafo sono partita con la storia di questo lievitato :)